C’era una volta una donna che
sembrava una ragazza.
Glielo dicevano tutti: “Va là che
sembri una ragazza!”, oppure “Di che ti lamenti che tanto sembri ancora una
ragazza?”. Quindi potrei dire, per cominciare questa storia: c’era una volta
una ragazza. Non lo dico però, perché sarebbe una bugia e la ragazza, opps, la
donna, si arrabbierebbe. Mi direbbe: “Ho fatto tanta fatica per crescere che di
forza non ne ho più, finalmente sono quello che dovevo essere, per quanto poco
sia, e nessuno se ne accorge”.
La donna, però, era da parecchio
che aveva smesso di arrabbiarsi per quello che dicevano gli altri, anzi gli
altri, tutti gli altri, le passavano davanti agli occhi senza che lei neppure
li vedesse, perché era molto occupata.
Era occupata ad essere triste.
Era talmente triste che il mondo
tutto intero era sparito dai suoi occhi. Era rimasta sola in uno spazio bianco.
Questa sua tristezza la faceva
piangere e piangere come una fontana.
Era diventato un bel problema,
una cosa per cui prendere dei provvedimenti.
Portava sempre l’impermeabile
anche dentro casa quando non doveva uscire, per non bagnare continuamente i
vestiti e doversi cambiare; aveva trovato il sistema di mettere bacinelle e
stracci in ogni stanza della casa con cui asciugare il pavimento e teneva
sempre a portata di mano fazzoletti e asciugamani.
Vivere insieme a tutte queste
lacrime era piuttosto complicato oltre che faticoso. Sì perché quando ad
esempio nei film, si vedono le persone piangere, di solito una lacrima
trasparente scorre sulle loro guance, gli occhi al massimo si arrossano un poco,
loro si asciugano contegnosamente e la cosa risulta molto commovente ed educata.
Invece piangere nella realtà è
molto più faticoso e risulta anche più spiacevole da vedere. Bisogna soffiarsi
continuamente il naso. Nessuno studio clinico, che io sappia, si è mai occupato
della schifosa relazione che intercorre tra le lacrime degli occhi e il muco
del naso.
Comunque.
Passava il tempo ma la donna non
smetteva di piangere.
Tutti le dicevano. “Ma dai smettila,
che vuoi che sia, le cose passano e passeranno anche per te, piantala un po’,
fai un corso di ceramica, di bricolage, di decoupage, di alta pasticceria,
iscriviti a Master Chef, a X Factor, scrivi un libro di ricette, di racconti,
di barzellette, candidati alle elezioni, impara a ricamare!”
Ma niente, la donna non smetteva.
Passavano i giorni e anche i
mesi.
Un giorno dopo l’altro, un mese
dopo l’altro. Passò l’estate, venne l’autunno, Natale passò e se ne andò, stava
quasi per tornare la primavera.
Passarono nove mesi.
Una mattina, svegliandosi, la
donna trovò accanto al suo letto una piccola culla con dentro un bambino.
Era un bambino bellissimo,
sembrava fatto di luce, sembrava fatto di vetro.
Aveva gli occhi luminosi e il
sorriso di un bambino che sorride. Era fatto di lacrime.
Il bambino la guardava.
“E tu chi diavolo sei?” gli disse
la donna, “come ci sei arrivato qui, accanto al mio letto?”
“Mi ha fatto tu con tutte le
lacrime che hai versato in questi mesi.”
Il bambino saltò giù dalla culla,
e fece due passi per la stanza.
“Perché piangi tanto? I vicini si
saranno lamentati, gli avrai fatto le macchie sul soffitto.”
Era pure spiritoso.
“Piango perché ho perso la
persona della mia vita” rispose lei.
“Lo sapevo, ho chiesto solo per
fare conversazione” disse lui.
Era pure un po’ stronzo.
Bellino, fatto d’acqua,
sorridente, ma un po’ stronzo.
“E hai intenzione di rimanere
qui?”
“No, sono venuto per te. Fatti
bella, io ti aspetto qui.”
La donna se ne andò nel bagno, si
lavò con cura, si pettinò e si truccò, era bella nonostante gli occhi fossero
stanchi dal troppo pianto. Si vestì, indossò un vestito e tutti i gioielli e
gli anelli che le aveva regalato la sua persona.
“Sono pronta”, disse.
Il bambino le sorrise e le prese
la mano, le disse: “Andiamo, vieni con me”.
Aprì la finestra.
Fuori l’aria era azzurra, il
cielo limpido e freddo, ripulito dal vento del nord che soffiava piano, era un
giorno ideale per i pescibanana.
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